Il Metaverso come mondo della vita sociale

Paolo Costa
14 min readMay 25, 2022

Riflessioni a margine dell’avvio del tavolo di lavoro sui metaversi, promosso dall’Assocazione Blockchain Italia

Ragazza con visore VR immersa nel Metaverso.

[L’articolo apparirà nel prossimo numero del magazine “OverData”. Potete leggere e scaricare il numero di aprile 2022, dove già si parlava di Metaverso. Seguite l’Associazione Blockchain Italia, non-profit per la divulgazione multidisciplinare e ricerca scientifica sulle tecnologie Blockchain.]

Si potrebbe dire che i termini metaverso, mondo virtuale e ciberspazio sono sinonimi. Tali espressioni fanno solitamente riferimento a uno spazio — differente dal mondo reale — nel quale gli individui esperiscono molteplici aspetti della vita sociale: incontrarsi, comunicare, scambiare beni e servizi, muoversi ecc. Il richiamo alla dimensione sensibile ed esperienziale è decisivo. Il mondo è quello che ci è presentato dai sensi. D’altra parte, distinguere fra mondo reale e mondi virtuali significa proclamare che il primo si differenzia dai secondi in quanto solo esso è dotato di qualità reali, ossia esistenti al di là della nostra rappresentazione. Altrimenti saremmo costretti ad ammettere che tutti i mondi sono virtuali e che esistono tanti mondi quanti sono i soggetti che li percepiscono. Ma questo sarebbe un fenomenismo tanto radicale quanto ingenuo, benché sul punto torneremo più avanti.

Il Metaverso — che dunque scriveremo da qui in avanti con l’iniziale maiuscola, ogni volta che ci riferiremo alla categoria in generale — vuole portare a compimento la missione associata a tutte le prospettive utopistiche di Internet, anche da prima dell’invenzione del Web. Prospettive che intendono la Rete non solo e non tanto come infrastruttura tecnica per la conservazione e lo scambio di informazioni, ma anche e soprattutto come mondo della vita sociale. Il Web2 ha provato a dare riscontro a tale ipotesi attraverso l’invenzione dei social media, di cui oggi si discutono soprattutto gli aspetti disfunzionali: alienazione e sfruttamento degli utenti, bolle sociali e imbarbarimento della sfera pubblica, problemi di governance delle piattaforme, formazione di oligopoli economici. Per questo motivo il Metaverso, sintesi fenomenologica del Web3, suscita una serie di attese che vanno al di là dei confusi scenari di business. Col Metaverso non solo faremo un sacco di soldi, si dice, ma risolveremo anche tutti i problemi che Facebook, Twitter, Instagram e TikTok ci hanno consegnato. Attendiamo di capire se una simile aspettativa sia realistica, ma un po’ di sano spirito critico dovrebbe suggerirci prudenza.

I componenti necessari di un mondo sociale

Intanto l’idea che il Metaverso sia un mondo della vita sociale ci fa postulare che esso includa alcuni componenti essenziali:

a) degli attori razionali coinvolti in una dimensione intersoggettiva;

b) dei valori simbolici, che possiamo chiamare anche oggetti culturali;

c) delle istituzioni.

Nessuna società esiste, in assenza di tali componenti. In particolare, valori simbolici e istituzioni regolano gli scambi fra individui all’interno di ogni mondo sociale.

Mondo sociale reale e mondi virtuali

Per comprendere limiti e specificità dei mondi virtuali occorre tuttavia porsi alcune domande. Ne identifichiamo tre, che ci sembrano di particolare rilevanza:

1) Quando possiamo dire di essere in presenza di un mondo virtuale?

2) Quali aspetti della vita sociale sono esperibili in un mondo virtuale, e quali invece non lo sono?

3) In base a quali principi si regola in mondo virtuale e come vi si esercita la funzione giurisdizionale?

Di seguito cercheremo di sviluppare questi tre punti.

Che cos’è un’esperienza virtuale

L’espressione realtà virtuale ha conosciuto, nel linguaggio comune, un processo di banalizzazione. Oggi si usa per lo più per designare, semplicemente, una simulazione generata da un computer, capace di ingannare i nostri sensi e dunque le immagini mentali elaborate dal nostro cervello. «Matrix è il mondo che ti è stato messo davanti agli occhi per nasconderti la verità» dice Morpheus a Neo, il pirata informatico Thomas Anderson, nel film culto di Andy e Larry Wachowski. In questo tipo di definizione il virtuale si contrappone al reale. Ma si tratta, appunto di una banalizzazione. Perché virtuale, che discende dal latino medievale virtualis (derivato, a sua volta, da virtus, «forza», «potenza»), non indica il contrario di reale. L’attributo si contrappone semmai ad attuale, poiché si riferisce a «ciò che esiste in potenza». Virtualità e attualità, insomma, stanno entrambi dalla parte della realtà: sono due modi di essere.

Allora il processo di virtualizzazione smette di apparirci come una de-realizzazione, ma assume i connotati di un cambiamento di identità. Pensiamo, per esempio, alla virtualizzazione del lavoro che abbiamo praticato negli ultimi due anni, la quale non è certo consistita in un cessare-di-essere del lavoro, ma appunto in un cambiamento-del-modo-di-essere del lavoro. Pierre Lévy (Il virtuale, 1997) enuclea tre caratteristiche della virtualizzazione:

· delocalizzazione (si attua un disinnesco dallo spazio fisico e geografico consueto);

· effetto Moebius (si consuma il continuo passaggio fra interno/privato/soggettivo ed esterno/pubblico/comune, e viceversa);

· problematizzazione (si passa dalla soluzione di un problema particolare alla formulazione di un problema più generale).

Potremmo addirittura affermare che ogni immagine mentale, in quanto elaborazione prodotta a partire dalle informazioni fornite al cervello dai cinque sensi, è una virtualizzazione del mondo reale in cui agiamo. La realtà, intesa come «ciò che sta fuori» — fuori di noi, fuori dalla macchina fotografica, fuori dal computer — esiste. Tuttavia è priva della maggior parte degli attributi che le assegniamo. Forme e colori, così come odori, suoni, caldo e freddo ecc., non sono proprietà del mondo, ma costruzioni della nostra mente. L’immagine di un paesaggio non è qualcosa che «entra» in noi. Tale immagine è il prodotto dei nostri meccanismi cognitivi, è un allestimento del nostro cervello. «Là fuori» c’è qualcosa di inaccessibile: un universo silenzioso, informe e grigio, il quale contiene molecole, atomi e campi elettromagnetici, ovvero cose che non hanno, in sé, colore, odore, sapore e temperatura. L’esperienza del mondo è una finzione della coscienza (Enrico Bellone, Qualcosa, là fuori. Come il cervello crea la realtà, 2011).

Dalla realtà virtuale al mondo virtuale

Tornando alle definizioni imposte dall’uso comune, dovremmo anche chiarire che cosa sia un mondo virtuale. Semplificando al massimo, potremmo dire che un modo virtuale è una realtà virtuale in cui più utenti possono interagire. Talvolta si impiega anche l’acronimo MUVE, che sta per multi-user virtual environment. Per quanto scontata, tale circostanza andrebbe ricordata ogni volta che qualcuno scambia per Metaverso quella che è solo una mirabolante installazione multimediale priva di dimensione intersoggettiva. Si noti che qui usiamo i termini metaverso e mondo virtuale come sostanzialmente sinonimi. Vedremo più avanti che non tutti convengono su questa equivalenza.

Si noti altresì che continuiamo a parlare di mondi virtuali al plurale. In effetti sappiamo che mentre il mondo reale è unico per definizione, gli universi alternativi si presentano in numero indefinito e potenzialmente illimitato. Il che implica due questioni problematiche:

1) l’interoperabilità, ovvero la possibilità per un attore sociale di passare da un mondo all’altro e di portare con sé la maggior parte dei propri asset e i relativi titoli (se sono proprietario di un bene virtuale nel mondo A, devo poter trasferire tale bene nel mondo B e vedere riconosciuto il mio diritto di proprietà su di esso anche nel mondo B);

2) l’identità multipla, ovvero la possibilità di associare la mia identità reale a una pluralità di identità virtuali, una per ciascuno dei mondi che decido di abitare, le quali potranno essere anche molto diverse fra loro, a patto che siano agganciate univocamente con quella reale.

La questione dell’identità, peraltro, si declina anche considerando la possibilità di fare evolvere e modificare la propria identità virtuale, pure nell’ambito dello stesso mondo, tutte le volte che lo si desidera. Questo incessante lavorio sui tratti della propria identità è uno degli aspetti più caratteristici dell’esperienza di Second Life, e non a caso ha generato una florida economia costruita intorno alla cura dell’avatar.

Metaversi e tecnologie VR/AR/MR

Semplificando un po’, possiamo identificare tre prospettive nel dibattito sul Metaverso. Gli innumerevoli progetti in corso sono di volta in volta riconducibili a una di tali ipotesi, riassumibili come segue:

a) l’esperienza del Metaverso implica l’uscita sensoriale dal mondo reale — diciamo uno stacco netto, ancorché temporaneo — e dunque presuppone l’impego di una tecnologia di Virtual Reality (VR);

b) il Metaverso consiste nell’integrazione fra mondo reale e mondo virtuale e dunque presuppone l’impiego di una tecnologia di Augmented Reality (AR) o Mixed Reality (MR);

c) quello del Metaverso è un ambiente immersivo, navigabile e tridimensionale, ma non presuppone necessariamente l’impiego di tecnologie VR/AR/MR.

Entriamo, di seguito, nel dettaglio delle tre ipotesi.

Abbiamo detto che il Metaverso è uno spazio esperienziale. Ebbene, ci riferiamo con ciò a un’esperienza puramente mentale? Parrebbe di no. Altrimenti, rubando una felice definizione di Guido Paduano (Il testo e il mondo. Elementi di teoria della letteratura, 2013) ci troveremmo a concludere che la realtà virtuale esiste da secoli e si chiama letteratura. Infatti, cos’altro è la letteratura, se non la pretesa di «toglierci — per un intervallo di tempo delimitato, contrassegnato da segnali demarcativi precisi, che hanno valore metalinguistico e funzione rassicurante — dalla vita quotidiana, per inserirci in una dimensione esistenziale alternativa, costituita in forma autosufficiente dalla letteratura medesima»? Nell’idea prevalente, il Metaverso sembra distinguersi dalla letteratura, ma anche dal Web come lo conosciamo oggi, proprio perché agisce con una certa intensità al livello delle nostre strutture sensoriali. Per quanto continuiamo a chiamarlo virtuale, il Metaverso invoca una certa materialità.

Nella sua versione estrema, il Metaverso vuole essere visto e udito, al limite anche toccato, annusato e gustato, al posto del mondo reale. Stiamo dunque parlando di esperienze abilitate da tecnologie di Virtual Reality (VR), che integrano apposite interfacce multisensoriali: non solo visive e acustiche, ma anche aptiche ed eventualmente olfattive. La VR postula un Metaverso completamente separato dal mondo reale nel quale viviamo. Entrare nel Metaverso significa interrompere temporaneamente la relazione con il mondo reale instaurata dai nostri sensi. Peraltro sappiamo che tale interruzione del contatto con il mondo reale non significa un’uscita tout court. Perché in effetti il nostro corpo, con le sue ferite e i suoi desideri, continua a essere immerso nel mondo reale. Si tratta semmai della mera illusione di un’uscita, illusione autoindotta attraverso una volontaria sospensione dell’incredulità, proprio come accade nell’esperienza letteraria.

Tuttavia questa non è l’unica idea di Metaverso in circolazione. Una prospettiva differente è quella di chi immagina un’integrazione fra virtuale e reale, piuttosto che una separazione. Si tratta, in questo caso, di aumentare il mondo reale con entità e/o informazioni del mondo virtuale. Parliamo, appunto, di Augmented Reality (AR) o Mixed Reality (MR), una famiglia di tecnologie che integrano una fondamentale capacità: la localizzazione e la mappatura simultanea dello spazio reale (simultaneous localization and mapping o SLAM). Portare l’esperienza dell’AR dal livello attuale alla scala del Metaverso è la missione di chi crede in questa prospettiva. Esistono oggi alcune limitazioni, sia lato software sia dal punto di vista dell’hardware, che devono essere superate per rendere credibile l’ipotesi di un Real-World Metaverse. Non è escluso che la soluzione a questi problemi possa venire da settori industriali apparentemente lontani dall’ambito del Metaverso. È il caso delle tecnologie AR per i veicoli a guida autonoma, come quelle sviluppate dall’americana Phiar. Del canto suo, Apple sta lavorando a degli occhiali AR di nuova generazione, che integrano addirittura 14 telecamere e un algoritmo capace di coordinare i punti di vista di ciascuna di esse.

Vi è poi una terza prospettiva, per così dire riduzionista. È l’idea che il Metaverso debba essere immersivo, tridimensionale e navigabile, ma possa risolversi tutto all’interno di un client tradizionale (mobile phone, tablet o PC), meglio ancora se browser-based, senza l’ausilio di telecamere, visori, occhiali, guanti o altri apparati hardware dedicati. Niente VR/AR/MR, dunque. L’esperienza di Second Life — che, tutto sommato, è ad oggi il metaverso più evoluto — dimostra la validità dell’ipotesi riduzionista.

I limiti dell’esperienza nel mondo virtuale

La seconda fondamentale questione legata al dibattito sul Metaverso riguarda, come abbiamo detto, gli eventuali limiti dell’esperienza che il soggetto può vivere in un mondo virtuale. Esistono aspetti della vita sociale che sono esclusivi del mondo reale e che non possono essere riprodotti nel Metaverso? L’indagine deve svilupparsi in due direzioni: da un lato abbiamo gli aspetti della vita sociale più profondamente connessi alla dimensione corporea dell’esperienza, dall’altro quelli regolati da convenzioni e impianti normativi.

Con riferimento al primo punto, ci domandiamo che posizione assuma il nostro corpo biologico in uno spazio virtualizzato. È possibile, per esempio, consumare un rapporto sessuale nel Metaverso, ricavandone un godimento psicofisico anche intenso? Immaginiamo di sì, considerando il fatto che parliamo di un’esperienza dai connotati molto vari e situata in senso culturale. E difatti le pratiche riconducibili a questo ambito sono innumerevoli, da quelle più semplici etichettate come sexting (scambio di testi e immagini finalizzato alla reciproca eccitazione), fino ai VR sex toys sempre più popolari, come il Titan prodotto dall’olandese Kiiroo, masturbatore maschile interattivo, e i non meno diffusi corrispondenti femminili a controllo remoto. Ci sono tuttavia alcuni limiti al momento difficilmente superabili. Primo fra tutti quello che impedisce a un atto sessuale virtuale, ancorché eterosessuale, di sfociare in un evento riproduttivo.

Altre situazioni sembrano prive di senso nel Metaverso, come farsi una doccia, andare dal dentista, concedersi un drink e cose di questo tipo. Eppure docce e vasche da bagno abbondano in Second Life. Una bella Jacuzzi può costare fino a 750 linden dollar (LD). Quanto a bar, pub e ristoranti, anch’essi si trovano in gran numero nei metaversi che oggi vanno per la maggiore, benché abbiano solo la funzione di luoghi di ritrovo. A meno che non li si compia mentre si è nel Metaverso, ma attivando quella parte di noi che resta fuori di esso (effetto Moebius), bere e mangiare diventano atti simulati. Che gusto c’è a simulare la degustazione di un buon vino? Scrive Bree Giffen, residente di Second Life dal 2009, «invece di apprezzare il sapore, mi piacciono le texture, le animazioni, i suoni e i testi». Mai dire mai, insomma, soprattutto se si pensa al Metaverso come una realtà aumentata, che non sostituisce il mondo reale ma si integra a esso. Certo, quando dichiara che presto faremo tutto nel Metaverso, Mark Zuckerberg si assume un rischio non da poco.

Con riferimento al piano regolativo, i limiti dell’esperienza nel mondo virtuale sono anche quelli stabiliti dal sistema di regole vigenti in tale mondo. Il piano regolativo può riguardare:

a) il modo in cui si stipulano i contratti;

b) la definizione di proprietà virtuale (gli NFT sono la risposta?);

c) la gestione dei beni virtuali (distruzione, furto, smarrimento);

d) il collegamento fra proprietà virtuale e proprietà fisica;

e) la protezione dei dati personali;

f) la sanzione di comportamenti definiti come criminali.

Tutto questo ci porta ad affrontare l’ultima grande questione, quello della governance.

I principi regolativi dei mondi virtuali

Il punto relativo al modo in cui i concetti giuridici del mondo reale possono funzionare, nel momento in cui vengono trasferiti in un mondo virtuale è oggi oggetto di un dibattito serrato. Si tratta di conciliare e integrare due livelli, rispettivamente esterno ed interno:

· il livello esterno si riferisce alla cornice normativa dei mondi reali in cui un determinato metaverso è attivo, ovvero le leggi vigenti in ciascuno dei paesi in cui esso opera (questione resa più complessa per il fatto che, in genere, le grandi piattaforme agiscono su scala globale e tendono a fare shopping giurisdizionale);

· il livello interno riguarda le politiche e le procedure adottate dai metaversi, le quali regolano una serie di comportamenti, dalla moderazione dei discorsi al trattamento dei dati personali, e che sono a propria volta influenzate dalle leggi dei paesi in cui operano.

L’uno e l’altro livello — ma soprattutto quello interno — rimandano alla questione della governance. In questo senso nel dibattito corrente sul Metaverso si confrontano due posizioni.

La prima vede nel Metaverso un ecosistema aperto, decentralizzato, interoperabile, posseduto, edificato e gestito dalla comunità. La seconda tende viceversa a replicare il modello della piattaforma: chiuso, centralizzato, governato della corporation che la possiede e la gestisce. Non sorprende che questa seconda prospettiva sia sostenuta soprattutto dai soggetti interessati a salvaguardare anche nel Web3 le rendite di posizione di cui oggi godono. Il caso di Meta Platforms (ex Facebook) è paradigmatico.

Secondo gli analisti di a16z solo quelli del primo tipo si possono definire, in senso proprio, metaversi. I secondi sono invece classificabili come mondi virtuali. Questo modo di intendere i mondi virtuali ingenera una certa confusione, dal momento che fin qui abbiamo associato a tale espressione un’accezione differente e abbiamo concluso che metaverso e mondo virtuale sono sinonimi. Tuttavia la contrapposizione aperto/chiuso (o centralista/decentralizzato) è molto importante.

Metaversi «autentici» vs. pseudo-metaversi

Quali sono, dunque, i requisiti essenziali che un metaverso deve soddisfare per poter essere definito tale? Harkavy, Lazzarin e Simpson ne indicano sette:

1) Architettura decentralizzata (resta da capire in base a quale modello, visto che se ne possono ipotizzare diversi, come suggerisce Miles Jennings in Decentralization for Web3 Builders: Principles, Models, How, «Future», 7 aprile 2022)

2) Esistenza di effettivi diritti di proprietà sui beni, che includano la possibilità di vendere tali beni, acquistarli o affittarli (al momento i presupposti tecnologici di un tale requisito sono crittografia, blockchain e NFT)

3) Gestione decentralizzata dell’identità digitale (Self-Sovreign Identity, SSI), ovvero possibilità per gli utenti di esercitare un controllo sulla propria identità virtuale

4) Componibilità (composability), ovvero possibilità di mettere insieme componenti software diversi secondo un “approccio Lego”

5) Impiego di software open source

6) Coinvolgimento degli utenti nella governance (Decentralized Autonomous Arganization, DAO)

7) Immersività sociale, ovvero possibilità di fare molte cose insieme: uscire, lavorare insieme, mescolarsi con gli amici e divertirsi (non necessariamente VR/AR)

Recentemente Nick Clegg, responsabile Global Affairs di Meta, ha detto la sua a proposito di ciò che il Metaverso dovrebbe essere, intervenendo con un lungo post su Medium (Making the metaverse: What it is, how it will be built, and why it matters, 18 maggio 2022). Quello di Clegg è un punto di vista interessato, vista la posizione che egli ricopre da qualche anno. In ogni caso è interessante osservare quali siano, a suo parere, i tre fattori che rendono l’interazione nel Metaverso qualitativamente diversa da quella garantita dai servizi del Web2.

Il primo di tali fattori è il ritorno al carattere impersistente della comunicazione, in analogia con l’esperienza che contraddistingue la comunicazione face-to-face nel mondo reale e in discontinuità, invece, con il paradigma del Web2, basato sulla registrazione e la conservazione di ogni scambio. Verrebbe da domandare se Meta prevede comunque di sfruttare tecniche di machine learning per analizzare il contenuto delle conversazioni degli utenti e monetizzare tali informazioni. Clegg sostiene che non sarà necessario conservarle, se non per periodi di tempo limitati e comunque non nei server di Meta ma nei client degli utenti. Ovviamente ci sono molte altre informazioni, relative alla nostra esperienza nel Metaverso, che possono essere classificate e sfruttate: il fatto stesso che conversiamo, con chi lo facciamo, in che luogo e per quanto tempo, così come quelle che riguardano l’aspetto del nostro avatar, i nostri consumi e molto altro.

Il secondo fattore è l’incorporazione (embodiment), ovvero la possibilità di comunicare non solo con la voce o per il tramite di un testo scritto, ma anche in modo paraverbale e non verbale: postura, gestualità, sguardo, espressioni del volto e prossemica. Tutto questo dovrebbe contribuire a nutrire la fiducia sociale e sviluppare il senso di appartenenza a una comunità.

Il terzo fattore, infine, consiste nell’immersività dell’esperienza. Il che ci riporta alla questione, già affrontata, delle tecnologie che supporteranno questo tipo di scenario. Clegg insiste sul ruolo che giocheranno le tecnologie VR e AR, aggiungendo che sarà indispensabile adottare un approccio inclusivo, per evitare che il Metaverso diventi appannaggio di pochi privilegiati a causa del costo elevato di visori e altri apparati. È un discorso già sentito, e anche un po’ peloso. Nel 2015 Facebook finanziò l’introduzione in India di Internet.org, un servizio pensato per garantire l’accesso alla Rete — con alcune limitazioni — a condizioni molto vantaggiose per le fasce della popolazione più povere, che non possono permettersi di pagare il prezzo di una connessione a banda larga. Pazienza se tutto questo andava in palese conflitto con il principio della neutralità della Rete, prefigurando condizioni di accesso differenziato alle risorse online (non a caso nel 2016 il servizio è stato proibito dagli enti regolatori indiani, in quanto giudicato discriminatorio).

In ogni caso Clegg sembra convinto della necessità di garantire l’interoperabilità dei metaversi attraverso l’adozione di standard aperti per ciascuno dei tre livelli della costruzione che ha in mente: hardware (telefoni, cuffie, caschi, guanti, occhiali ecc.) e protocolli di comunicazione; piattaforme e reti; esperienze (applicazioni).

Verso un bioware?

Come si vede, quello del Metaverso è un laboratorio concettuale, prima ancora che tecnologico, di straordinaria potenza. Siamo nella fase in cui, anziché affannarsi a trovare frettolose risposte, occorre riconosce le giuste domande. Spindox ha deciso di mettere parte delle proprie energie nel tavolo sul Metaverso che ha avviato i suoi lavori presso l’Associazione Blockchain Italia. Insieme ad altre imprese, ricercatori e rappresentanti del mondo delle professioni, cerchiamo di costruire la trama di questa storia. Nel frattempo, consideriamo il monito contenuto in Snow Crash, il grande romanzo di Neal Stephenson a cui dobbiamo l’invenzione del termine Metaverso:

Ricordi quando hai imparato il codice binario per la prima volta? […] Stavi formando dei percorsi nel tuo cervello. Strutture profonde. I tuoi nervi sviluppano nuovi collegamenti mentre li usi; gli assoni si dividono e si insinuano tra i gliociti; il tuo biomateriale — il tuo bioware — si modifica da solo e il software diviene parte dell’hardware. Così ora tu sei vulnerabile.

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Paolo Costa

Postmedia, digital humanities, relationships between technology and societal change.