La Rete e il futuro del passato
Ci domandiamo in che modo la convergenza del computer e delle telecomunicazioni, ovvero l’avvento di Internet, stia influendo sulle forme di interpretazione, trattazione e trasmissione dei fatti del passato.
In realtà le questioni che dovremmo porci sono due, e andrebbero tenute concettualmente distinte, benché vi sia una relazione piuttosto evidente fra l’una e l’altra.
La prima riguarda la pratica storiografica in quanto tale e i suoi principi metodologici. In questo caso la domanda è:
- Quali trasformazioni determina Internet nell’ambito della ricerca storiografica, a livello di strumenti, metodi e approcci critici?
La seconda questione si riferisce alla presenza della storia nella società. Il che si traduce a propria volta in due ulteriori domande.
Da un lato, dunque:
- Come cambia il ruolo del pensiero storico nella cultura contemporanea, dominata dal paradigma della Rete?
Dall’altro:
- Come cambia la percezione del passato da parte di tutti noi nell’epoca di Internet?
In sintesi, quando parliamo dell’influenza di Internet ci possiamo riferire a tre differenti campi di indagine:
- lavoro dello storico
- funzione della storia
- futuro della storia
Nel tentativo di formulare qualche risposta, questa mia riflessione oscilla fra un atteggiamento destruens e uno construens.
Preliminarmente vorrei dire che storiografia ed esperienza della Rete condividono tre dimensioni problematiche:
1. documento
2. memoria
3. tempo
C’è poi una quarta dimensione, che vale la pena di indagare:
4. comunicazione
Documento
Indubbiamente Internet porta con sé strumenti e servizi che cambiano, talvolta in profondità, la natura dei documenti contenenti le fonti dello storico. Abbiamo avviato un lento ma forse inesorabile processo di digitalizzazione dei documenti, talvolta definito anche come processo di dematerializzazione.
La digitalizzazione dei documenti storici implica il loro asservimento a quella che Lev Manovich chiama «cultura del software»[1] e ai suoi principi:
- modularità (la possibilità di scomporre ogni contenuto in piccoli moduli autosufficienti)
- automazione (la sottrazione di molte fasi del processo di produzione di un contenuto all’intenzionalità umana)
- variabilità (la tendenza del contenuto digitale a essere declinato in infinite varianti)
- transcodifica (la convergenza delle culture e dei linguaggi, favorita dall’incontro all’interno di piattaforme omnicomprensive)
Tuttavia la cultura del software ha uno statuto ambiguo, perché si colloca in bilico fra due cifre: la memorizzazione e l’oblio. Da un lato possiamo considerare Internet, e il Web in modo particolare, come lo spazio della nuova documentalità, nel quale ogni atto sociale viene iscritto, ogni fatto viene registrato e — appunto — memorizzato. Un documento web è, nella terminologia di Maurizio Ferraris, un «documento in senso debole», ossia la registrazione di uno o più fatti[2]. Dall’altro lato Internet è il luogo dello sperpero, in cui tutto si perde.
La Rete è un supporto scrittorio. In essa lasciamo tracce, spesso al di là della nostra volontà. Ma la Rete è altresì il luogo in cui cancelliamo le nostre tracce. E anche questo avviene, almeno in una certa misura, in modo preterintenzionale o comunque non del tutto consapevole. Cancelliamo le nostre tracce nella misura in cui tutto ciò che sembra riconducibile a noi smette di appartenerci nel momento stesso in cui lo affidiamo alla Rete. Ci affanniamo a costruire la nostra biografia online — post dopo post, tweet dopo tweet — e poi non la riconosciamo. È interessante, in questo senso, osservare la progressiva rivendicazione di un nuovo diritto del cittadino digitale, quello che viene comunemente chiamato «diritto all’oblio». D’altra parte il successo di alcune piattaforme di comunicazione, come Snapchat e WhatsApp, popolari soprattutto fra il pubblico più giovane, si basa proprio sull’impersistenza dei contenuti.
Il Web è una realtà variamente definibile. Possiamo pensarlo come uno spazio sociale, nel quale si consumano le nostre relazioni. Possiamo considerarlo in quanto insieme di servizi (informazione, commercio, divertimento). Ma certamente possiamo anche vederlo come un immenso archivio, ossia una raccolta organizzata di documenti.
È importante essere consapevoli che l’architettura della Rete condiziona il modo in cui i documenti vi sono collocati. La topologia di Internet si basa su una dimensione orizzontale, che il Web ha ereditato. Nel Web i contenuti non sono collocati secondo criteri gerarchici e sequenziali, ma in modo orizzontale. Tutti sono ugualmente reperibili, attraverso l’impiego di motori di ricerca disponibili a chiunque.
Ma il Web tradizionalmente inteso — diciamo: la sua utopia — è oggi sotto attacco. Per qualcuno si tratta di una trasformazione irreversibile. L’orizzontalità e l’universalità del Web sono messe in discussione in vario modo. Indico sinteticamente alcune tendenze, che mi sembrano particolarmente significative:
- il successo di piattaforme chiuse, come Facebook, e la conseguente balcanizzazione del Web (i documenti sono reperibili solo nell’ambito della piattaforma in cui sono stati collocati)
- il consolidamento di logiche di filtro nate per personalizzare l’esperienza dell’utente ma tendenti in realtà a impoverirla (l’utente viene imprigionato in una bolla cognitiva)
- la costruzione di un accesso di seconda classe al Web, come previsto nel modello Internet.org, in violazione al principio della neutralità della rete (gli utenti possono accedere solo a un insieme limitato di risorse e di contenuti online)
Ma non vorrei estendere oltre misura l’ambito di questa mia riflessione. Se ci concentriamo sulle possibilità offerte dal Web nel campo della gestione documentale, dobbiamo distinguere due fenomeni. Da un lato assistiamo alla digitalizzazione del patrimonio archivistico preesistente, dall’altro alla nascita di nuovi archivi, che chiameremo «digitali dalla nascita» o «nativamente digitali» in quanto privi di corrispettivi offline. È su questi ultimi — talvolta conosciuti anche come «archivi inventati» — che si concentra la mia attenzione.
A propria volta gli archivi inventati sono riconducibili a due tipologie:
- archivi che ricorrono a procedure di crowdsourcing
- progetti che prevedono esclusivamente dal lavoro di tecnici e scienziati
Appartengono alla prima categoria casi come Transcribe Bentham, sul quale tornerò in seguito per spiegare che cosa intendiamo quando parliamo di crowdsourcing, e What’s on the Menu?, raccolta di menu dei ristoranti newyorkesi dell’Ottocento promossa dalla New York Public Library[3]. Sono invece del secondo tipo Rousseauonline.org (Svizzera), Dictionnaire Montesquieu[4] (Francia) o Melville Project[5] (Stati Uniti).
Anche in Italia si registrano esperienze significative. Di grande interesse sono i progetti dedicati alle memorie private e ai profili familiari. Ne cito alcuni:
- Trento in Cina[6], dedicato alle vicende dell’incrociatore della Regia Marina Trento nel quadro della seconda guerra sino-giapponese (1932), che pure si presenta come sito con «intenti divulgativi e non celebrativi o storici».
- La città invisibile[7], che raccoglie le memorie di guerra di alcuni cittadini di Riccione
- Memoro. La banca della memoria[8], contenitore di testimonianze private in forma di interviste audio e video
- Ultime lettere di condannati a morte e di deportati della Resistenza italiana[9], percorso tematico inserito nel portale degli Istituti per la storia della Resistenza e della società contemporanea in Italia (INSMLI)
Non tutti gli archivi inventati hanno la dovuta accuratezza filologica e comunque si presentano spesso nella forma di mere raccolte di documenti. Manca qualsiasi riferimento al contesto di provenienza dei documenti stessi — il più delle volte si tratta di altri archivi — e al quadro storico[10]. È bene ricordare che un buon archivio digitale dovrebbe garantire:
- riferimenti al contesto archivistico di provenienza
- criteri filologici accurati
- strumenti di esplorazione dei contenuti
La questione degli archivi è evidentemente collegata a quella della memorizzazione.
Memoria
Tutti ricordiamo la commuovente lettera di Umberto Eco al nipote, apparsa due anni fa in una Bustina di Minerva e contenente un appello accorato all’esercizio della memoria[11]. In essa Eco si riferiva anche alla memoria storica, ossia al ricordo di ciò che è accaduto prima della nostra nascita. Ricordando l’importanza di allenare quello straordinario “muscolo” che è il cervello e dunque la nostra capacità di ricordare, così scriveva Eco:
Bada bene che questo non lo puoi fare solo su libri e riviste, lo si fa benissimo anche su Internet. Che è da usare non solo per chattare con i tuoi amici ma anche per chattare (per così dire) con la storia del mondo. Chi erano gli ittiti? E i camisardi? E come si chiamavano le tre caravelle di Colombo? Quando sono scomparsi i dinosauri? L’arca di Noè poteva avere un timone? Come si chiamava l’antenato del bue? Esistevano più tigri cent’anni fa di oggi? Cos’era l’impero del Mali? E chi invece parlava dell’Impero del Male? Chi è stato il secondo papa della storia? Quando è apparso Topolino?
Potrei continuare all’infinito, e sarebbero tutte belle avventure di ricerca. E tutto da ricordare. Verrà il giorno in cui sarai anziano e ti sentirai come se avessi vissuto mille vite, perché sarà come se tu fossi stato presente alla battaglia di Waterloo, avessi assistito all’assassinio di Giulio Cesare e fossi a poca distanza dal luogo in cui Bertoldo il Nero, mescolando sostanze in un mortaio per trovare il modo di fabbricare l’oro, ha scoperto per sbaglio la polvere da sparo, ed è saltato in aria (e ben gli stava). Altri tuoi amici, che non avranno coltivato la loro memoria, avranno vissuto invece una sola vita, la loro, che dovrebbe essere stata assai malinconica e povera di grandi emozioni.[12]
Ma che cosa cambia, nella costruzione della nostra memoria storica, nel momento in cui ci affidiamo a Internet come grande archivio del passato?
Un primo fenomeno consiste nella tendenza a concedere una fiducia crescente agli archivi digitali. Alcuni studi sembrano evidenziare la tendenza al cosiddetto cognitive offloading da parte di chi utilizza Internet per recuperare informazioni[13]. In particolare è plausibile che l’uso di Internet alteri la propensione a ricercare nella nostra memoria le informazioni che vi sono conservate, spingendoci a trovare nei motori di ricerca una soluzione alternativa e quindi a ricorrere a essi in misura crescente. I motori di ricerca sono percepiti dal nostro sistema cognitivo come più comodi ed efficienti. Più ricerchiamo, meno ricordiamo.
Un secondo problema è costituito a mio avviso dal rischio dell’appiattimento della prospettiva storica che si corre, nel momento in cui le memorie private si riversano in Rete. Invece di favorire un discorso storico pubblico e condiviso, talvolta il Web amplifica la tendenza alla «privatizzazione della memoria»[14], in perfetta sintonia con la cifra narcisistica così diffusa in Internet.
Ma quando parlo di appiattimento della prospettiva storica mi riferisco anche e soprattutto a un fenomeno che riguarda il rapporto fra la Rete e il tempo.
Tempo
La Rete impone, per così dire, un tempo simultaneo. In altri termini riduce la percezione della distanza fra passato, presente e futuro. Curiosamente vi è un’analogia con l’idea agostiniana del tempo come coscienza:
Tempora sunt tria, praeteritum, praesens et futurum, sed fortasse proprie diceretur: tempora sunt tria, praesens de praeteritis, praesens de praesentibus, praesens de futuris.[15]
Da che cosa dipende questo appiattimento? Credo che sia legato all’esperienza della simultaneità che facciamo in Rete. Qualunque cosa, online, ha l’aria di accadere subito. Non vi è apparente distanza temporale fra input e output, fra azione dell’utente e reazione del sistema. Come ha fatto notare Paul Virilio, si tratta di un’esperienza traumatica: lo spazio-tempo della storia è sostituito da un tempo unico, dell’immediatezza.[16]
Piattaforme come Twitter e Snapchat, in particolare, si basano su un’aporia: il confronto fra il tempo che scorre (timeline) e la dittatura dell’istante (real-time). Ciò che è accaduto, è perso per sempre. Nulla si salva. Twitter è uno spazio sociale senza memoria.
Comunicazione
Si sostiene che la Rete renda le forme della narrazione storica accessibili a chiunque. È quanto afferma, per esempio, un difensore appassionato della cosiddetta digital history come Serge Noiret[17]. Ma non è solo una questione di accesso. Il punto è che, nell’ecosistema digitale online, cambia il modo di interagire fra chi scrive la storia e chi la legge. «I lettori in rete s’integrano in modo interattivo con la narrazione storica visto che il web, nella sua versione 2.0, permette tecnicamente un’apertura all’attività partecipativa»[18]. Il sapere storico diventa il prodotto di un lavoro collaborativo, che non coinvolge solo la comunità scientifica. In linea di principio tutti possono contribuire alla narrazione storica.
In questo quadro — sostengono sempre i difensori della digital history — cambia la posizione dello storico: non più titolare unico di un processo chiuso, ma orchestratore di tutti gli attori coinvolti, accademici e non. Scrive in proposito Dario Ragazzini:
La “storiografia digitale” favorisce non l’approccio narrativo ma l’approccio problematico: lo storico non è più l’esploratore che ritorna da un viaggio in terre lontane nel tempo e ci racconta la sua impresa mostrando qualche reperto, ma diventa l’organizzatore di una scenografia: egli mette a disposizione una rete di significati e una rete di fonti basate su selezioni e interconnessioni, che il lettore/utente è invitato a ripercorrere. Diventa qui importante l’individuazione di fattori e di variabili, mentre la comunicazione elettronica potrebbe (il condizionale è d’obbligo) offrire occasioni e modalità di rappresentazione multiple e contemporanee di interazioni.[19]
Distinguiamo due forme di collaborazione: quella fra pari e il cosiddetto crowdsourcing. Nel primo caso alcuni soggetti — in genere non troppo numerosi — sono impegnati con ruoli diversi ma uguale dignità nel compimento di una missione condivisa. È il caso dell’online peer review, che in fondo appare come un’evoluzione del tradizionale referaggio accademico: l’autore sottopone il proprio lavoro allo scrutinio di uno o più referee.
Sul web la pratica del peer review è supportata da piattaforme collaborative di uso sempre più comune e con diversi livelli di apertura: da Google Apps for Work e Microsoft Office 365, fino ai blog che permettono di intervenire su porzioni specifiche del testo pubblicato, anziché raccogliere tutti i commenti in fondo al testo, in ordine cronologico inverso.
Il crowdsourcing consiste invece nello sfruttamento di una folla di collaboratori i quali contribuiscono, ciascuno con un apporto individuale anche modesto, a raggiungere grandi risultati complessivi. Si basa su questo principio la realizzazione di numerosi archivi storici digitali: opere comunitarie che presuppongono un coordinamento e un inquadramento scientifico.
Un esempio spesso citato di archivio storico partecipativo è Transcribe Bentham[20], progetto lanciato dall’University College di Londra (UCL) con l’obiettivo di acquisire in formato digitale le immagini di tutti i manoscritti inediti di Jeremy Bentham e i relativi testi. Chiunque può dare il proprio contributo, trascrivendo i testi dei manoscritti in modo da rendere le immagini ricercabili all’interno di una base dati. A tale scopo è stato messo a punto un Transcription Desk, contenente una serie di strumenti che rendono più veloce il lavoro dei volontari e omogenei i risultati. Alla data del 19 novembre scorso risultavano trascritti all’interno dell’archivio oltre 17 mila manoscritti, quasi tutti verificati e approvati dallo staff di Transcribe Bentham.
L’iniziativa di UCL è parte del programma europeo READ — Recognition and Enrichment of Archival Documents[21], che persegue l’obiettivo di rendere gli archivi più accessibili mediante l’uso di tecnologie avanzate, come i sistemi di pattern recognition, natural language processing e handwritten text recognition. Molte funzionalità sono accessibili attraverso la piattaforma software Transkribus[22].
D’altra parte lo stesso Noiret evidenzia il pericolo che gli storici professionali non controllino questa trasformazione e che dunque siano tagliati fuori dal processo[23]. La ricostruzione del passato rischia di diventare il territorio dell’espressione individuale, di quelle che potremmo chiamare «ego-narrazioni»[24]. Si indebolisce la distinzione fra ricerca accademica e pratiche pubbliche, sia perché l’accesso alla documentazione storica — allorché digitalizzata — è più agevole per tutti, sia perché cresce il numero di narrazioni del passato di tipo grassroot.
Siamo in sostanza di fronte a una variante di quel processo di apparente democratizzazione e rimescolamento dei ruoli che si manifesta anche nell’ambito del giornalismo e della critica letteraria. Tale processo comporta un rischio: la perdita di controllo sugli strumenti critici che permettono di distinguere gli accadimenti dalle mitologie.
Nel momento in cui i mediatori critici tradizionali mostrano di aver perso buona parte della loro credibilità e l’ecosistema della Rete si impone come moltiplicatore di fattoidi, menzogne e post-verità, non possiamo sottovalutare tale rischio. Appare sintomatico che l’espressione post-truth sia stata nominata Word of the Year 2016 da Oxford Dictionaries, battendo fra le altre chatbot e brexiter[25].
Né possiamo dimenticare che alle origini del pensiero storiografico, a partire dal VI secolo a.C. e in modo più evidente con Tucidide (460–395 a.C.), c’è proprio la necessità di demitizzare il mondo e di ricercare la verità dei fatti al di là del mito. Internet servirà allo scopo?
Bibliografia
Ferraris, M., Documentalità. Perché è necessario lasciar tracce, Roma-Bari, Laterza, 2009.
Noiret, S., La “nuova storiografia digitale” negli Stati Uniti (1999–2004), «Memoria e ricerca», n.s., 18, 2005, 169–185.
Noiret, S., La digital history: histoire et mémoire à la portée de tous, “Ricerche Storiche”, 41, 1 (gennaio-aprile 2011), 111–148.
Noiret, S., Storia pubblica digitale, “Zapruder. Storie in movimento”, 2015, 36, 9–23.
Ragazzini, D. (a cura di), La storiografia digitale, Torino, UTET, 2004.
Rosenzweig, R., Cohen, D. J., Clio Wired. The future of the past in the digital age, New York, Colombia University Press, 2011.
Vitali, S., Passato digitale. Le fonti dello storico nell’era del computer, Milano, Bruno Mondadori, 2004.
Note
[1] Lev Manovich, Software Culture, Milano, Olivares, 2010.
[2] Maurizio Ferraris, Documentalità. Perché è necessario lasciar tracce, Roma-Bari, Laterza, 2009.
[4] http://dictionnaire-montesquieu.ens-lyon.fr/fr/accueil/.
[5] http://charlesolson.uconn.edu/Works_in_the_Collection/Melville_Project/about.htm.
[6] http://www.trentoincina.it/.
[7] http://lacittainvisibile.it/.
[9] http://www.italia-resistenza.it/percorsi-tematici/percorsi-su-fascismo-e-resistenza/lettere-condannati-a-morte-della-resistenza/.
[10] Stefano Vitali, Passato digitale. Le fonti dello storico nell’era del computer, Milano, Bruno Mondadori, 2014, 116.
[11] Umberto Eco, Caro nipote, studia a memoria, “l’Espresso”, 3 gennaio 2014: http://espresso.repubblica.it/visioni/2014/01/03/news/umberto-eco-caro-nipote-studia-a-memoria-1.147715.
[12] Ibidem.
[13] Benjamin C. Storm, Sean M. Stone, Aaron S. Benjamin, Using the Internet to access information inflates future use of the Internet to access other information, “Memory”, 18 luglio 2016: http://dx.doi.org/10.1080/09658211.2016.1210171.
[14] Giovanni De Luna, La repubblica del dolore. Le memorie di una Italia divisa, Feltrinelli, Milano, 2011.
[15] S. Aurelii Augustini, Confessionum libri XIII, XI, 20.
[16] Paul Virilio, Vitesse et politique, Parigi, Galilée, 1977.
[17] Serge Noiret, La digital history: histoire et mémoire à la portée de tous, “Ricerche Storiche”, 41, 1 (gennaio-aprile 2011), 111–148.
[18] Idem, Storia pubblica digitale, “Zapruder. Storie in movimento”, 2015, 36, 9–23, 10. Si veda anche Roy Rosenzweig, Daniel J. Cohen, Clio Wired. The future of the past in the digital age, New York, Colombia University Press, 2011.
[19] Dario Ragazzini, Le fonti storiche nell’epoca della loro riproducibilità informatica, in Idem (a cura di), La storiografia digitale, Torino, UTET, 2004, 33.
[20] http://blogs.ucl.ac.uk/transcribe-bentham/.
[21] http://read.transkribus.eu/mission/.
[22] https://transkribus.eu/Transkribus/.
[23] Serge Noiret, La digital history: histoire et mémoire à la portée de tous, op. cit.
[24] Idem, Storia pubblica digitale, op. cit., 9.
[25] Oxforddictionaries.com, Word of the Year 2016 is… (https://en.oxforddictionaries.com/word-of-the-year/word-of-the-year-2016).