Media algoritmici e algoritmi come media
Gli algoritmi che analizzano il nostro comportamento (Google Search, Facebook ecc.) non sono istruzioni meccaniche, ma attori di un processo. Possiamo vederli come agenti pragmatici, collegati agli utenti da un rapporto comunicativo. Nella prospettiva teorica di Sybille Krämer, gli algoritmi diventano media: parti di unità operative costituite dai media stessi, dai suoi utilizzatori e dal mondo.
La maggior parte degli studi sui media algoritmici parte da un assunto: gli algoritmi sono istruzioni meccaniche che regolano — passo dopo passo — l’esecuzione di un processo. In questo senso, ci si occupa del loro ‘impatto’ sulle faccende umane. In realtà già l’uso del termine ‘impatto’ andrebbe problematizzato. Personalmente non lo uso volentieri, perché suggerisce l’idea di un «urto». Per citare il Vocabolario Treccani, l’urto è «un incontro più o meno violento di un corpo con una superficie». L’algoritmo ‘impatta’, un po’ come il proiettile impatta sul bersaglio o l’asteroide impatta sull’atmosfera terrestre. Se siamo fortunati, l’impatto è morbido.
Il punto è che molti degli algoritmi dei quali ci occupiamo da un po’ di tempo, in quanto abbiamo cominciato a intuire la loro rilevanza per il corretto funzionamento della sfera pubblica, operano analizzando il comportamento degli agenti umani. È il caso, per fare un esempio riferito all’ambito più vicino ai miei studi, delle tecnologie impiegate nei motori di ricerca online nelle applicazioni che personalizzano l’informazione sulla base di procedure algoritmiche. Parliamo, cioè, di sistemi che stabiliscono la rilevanza informativa delle notizie, regolandone la visibilità. Sono i nuovi filtri, o — se preferite — i nuovi operatori di gatekeeping.
Proprio perché tali algoritmi operano analizzando il comportamento umano, considerarli come mere istruzioni meccaniche sembra inadeguato. Serve un approccio diverso, centrato non sulle proprietà dell’algoritmo in sé, ma sulla relazione algoritmo-umano. Nel mio contributo per il volume Informazione e media nell’era digitale, a cura di Giulia Avanzini, Giuditta Matucci e Lucia Musselli (Milano, Giuffrè, 2019) ho cercato di rimarcare l’interdipendenza fra i due attori — umano e artificiale — facendo riferimento alla categoria di dispositivo in senso foucaultiano, ossia come governo strategico delle azioni. Il dispositivo è tutto ciò che orienta i comportamenti e le opinioni degli esseri umani. E non va inteso come un prodotto, ma come un processo. Il dispositivo è una rete di elementi materiali, discorsivi e umani che entrano in gioco per definire una relazione di potere. In questo senso, l’algoritmo non è il dispositivo ma parte di esso.
Se ci spostiamo da una visione del problema di tipo filosofico a un approccio più squisitamente comunicativo, credo che possiamo giungere a conclusioni analoghe. Mi riferisco alla possibilità di concettualizzare algoritmi e utenti come agenti comunicativi, collegati cioè da un rapporto comunicativo. Ribadisco che qui non stiamo parlando di algoritmi in senso lato, ma delle tecnologie impiegate nei cosiddetti media algoritmici (Google Search, Facebook ecc.)
Non ci sono molti studi che seguano questo approccio. Mi piace segnalare una tesi di dottorato in Filosofia discussa da Martina S Mahnke all’università di Erfurt nel 2017 (Being informed in the digital age? A communication perspective on information relevance in algorithmic media).
È degno di nota che questa prospettiva porti a considerare l’algoritmo stesso come un medium. Algoritmo, tecnologia e medium finiscono per significare la stessa cosa, ossia un attore di quel processo che chiamiamo dispositivo. A corroborare l’ipotesi del medium come parte di un’«unità operativa» contribuisce la prospettiva teorica di Sybille Krämer. Da pochi mesi è finalmente possibile leggere in italiano la sua fondamentale Piccola metafisica della medialità. Medium, messaggero, trasmissione. L’edizione originale è del 2008, la traduzione italiana è a cura Federica Buongiorno (Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2020)
Sybille Krämer ci ricorda due fatti: primo, che qualcosa è un medium in una prospettiva pragmatica più che in una prospettiva strutturale, ossia la cosa è un medium allorquando qualcuno la usa come tale; secondo, che il medium fa parte di un’«unità operativa» costituita dal medium stesso, dal suo utilizzatore e dal mondo.
Esiste, nella medialità, un «potere d’azione», ossia una capacità di trasformazione. Ma tale potere d’azione non è del medium in sé. Esso spetta all’unità operativa. Si tratta dunque di un «potenziale distribuito, alla cui produttività contribuiscono costantemente componenti umane e non umane» (Krämer, pp. 296–297). Insomma, non un potere dei media sugli umani, ma un potere che media e umani esercitano insieme.
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